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Le Tabelle di Concordanza

Aggiornamento: 4 dic 2020

Un particolare uso illecito del marchio noto nel settore dei profumi.



Autore: Avv. Ginevra Lombardi


L’articolo 21.1 del Codice della Proprietà Industriale (c.p.i.) sancisce i casi in cui l’uso del marchio altrui da parte di un terzo, anche se effettuato nella propria attività economica, debba considerarsi lecito.


Questa eccezione al regime di tutela dei marchi richiede, innanzitutto, che tale uso sia conforme ai principi della correttezza professionale e che svolga solo finalità descrittive necessarie e non altrimenti sostituibili, volte cioè a soddisfare un’esigenza meramente descrittiva dell’attività, dei prodotti commercializzati o dei servizi erogati dal terzo che si serve del marchio altrui.


L’utilizzo del marchio altrui con finalità descrittive non deve inoltre essere tale da ingenerare un collegamento né un’associazione commerciale con il marchio o le attività del suo titolare.


Quando queste premesse non sono rispettate, l’eccezione al regime di tutela dei marchi non si applica e la condotta rientra nell’ambito delle attività illecite che il titolare del marchio ha il diritto di contrastare.


Un esempio di condotta illecita di questo tipo si ha con riferimento alle “tabelle di concordanza”.


Le tabelle di concordanza sono una pratica commerciale adottata nel mondo dei profumi tramite la quale si stabilisce un’equivalenza tra le fragranze create e vendute in un negozio o su un e-commerce e le fragranze di celebri profumi, identificate tramite l’uso di marchi noti. In sostanza, queste tabelle sono utilizzate dai negozianti per indicare che il profumo che producono o commercializzano ha la stessa profumazione di quello di una nota casa di moda, ma che è venduto a un prezzo di gran lunga inferiore, nascondendo dietro a un’esigenza descrittiva la volontà di attirare l’attenzione del consumatore.


Le maison di moda non possono impedire la commercializzazione della fragranza in sé poiché ancora non è riconosciuta tutela autorale alle fragranze né, di regola, possono vantare diritti di esclusiva sulle medesime.


Tuttavia, se l’ordinamento non attribuisse al titolare del marchio una qualche forma di tutela, il terzo potrebbe facilmente trarre vantaggio dalla sua condotta non corretta e il titolare rischierebbe di subire numerosi danni, anche di immagine, che sarebbero irreparabili.


Per questo motivo, nel caso in cui un terzo ricorra alla pratica commerciale delle tabelle di concordanza, al titolare del marchio è riconosciuto il diritto di impedire l’utilizzo dei propri marchi nella pubblicizzazione e commercializzazione dei profumi equivalenti, sul presupposto che tale uso fatto del marchio noto è tutt’altro che descrittivo, ma è volto ad agganciarsi alla sua notorietà al fine di attrarre la clientela per ottenere un vantaggio commerciale.


I giudici si sono più volte pronunciati in ipotesi di questo tipo ritenendo che tale pratica commerciale costituisca sia una violazione dei diritti esclusivi spettanti al titolare del marchio ex articolo 20.1 lettera a) e c)[1] – e che dunque si configura l’illecito della contraffazione del marchio – sia una violazione delle norme a tutela della leale concorrenza sul mercato.


I motivi sono evidenti. Proprio perché nel caso di uso delle tabelle di concordanza i marchi coinvolti sono tutti marchi noti, la tutela che il legislatore attribuisce a questi marchi è molto più ampia e prescinde da un effettivo rischio di confusione o dalla sola tutela della capacità distintiva del marchio.


Questo perché il marchio noto oltre a svolgere una funzione distintiva, possiede anche un vero e proprio potere attrattivo, detto sellingpower, che si sostanzia nella capacità evocativa e suggestiva del marchio di attirare i consumatori.


Questa “forza” del marchio noto è frutto delle scelte di business e degli ingenti investimenti sostenuti dall’imprenditore, che hanno portato il marchio ad accreditarsi sul mercato agli occhi del consumatore finale. Pertanto, il legislatore ha voluto riconoscere una tutela più ampia a tali marchi sia per proteggerne le potenzialità da chi, furbescamente, si aggancia alla sua notorietà per ottenerne un vantaggio competitivo, sia per premiare gli sforzi dell’imprenditore.


Addirittura in un caso trattato dal Tribunale di Torino[2], i giudici hanno ritenuto che, ai fini della configurazione dell’illecito di contraffazione di marchio in caso di uso delle tabelle di concordanza, l’uso di un disclaimer circa la non originalità del prodotto commercializzato è assolutamente superflua, anzi il disclaimer confesserebbe solo “l’intento di volersi riferire proprio ai marchi e ai prodotti altrui, sia con il dichiarato intento di praticare un uso descrittivo dei marchi”.


Oltre alla contraffazione del marchio, l’evidente finalità di citare il marchio altrui solo per agganciarsi allo stesso e catturare l’attenzione del cliente – senza quindi alcun tipo di esigenze di carattere descrittivo – rende questa condotta senz’altro contraria anche ai principi di correttezza professionale.


Sotto altro profilo, la condotta oggetto di discussione è potenzialmente vietata anche dalla disciplina sulla pubblicità comparativa, contenuta nel decreto legislativo n. 145/2007 in attuazione della direttiva comunitaria n. 114/2006, e dalla disciplina della concorrenza sleale per denigrazione o appropriazione di pregi prevista all’articolo 2598 n.2 del Codice Civile (c.c.).


La disciplina sulla pubblicità comparativa delimita l’ambito di liceità di tale pubblicità e dunque dell’utilizzo del marchio altrui, specificando le condizioni che devono sussistere per evitare un atteggiamento eccessivamente aggressivo nei confronti del concorrente e per tutelare il consumatore finale. Se tali condizioni non sono rispettate non solo la pubblicità non è corretta, ma l’uso del marchio altrui è illecito e dunque può essere represso dal titolare come atto di contraffazione.


Dunque, per essere lecita la pubblicità comparativa deve essere veritiera, non deve ingenerare confusione con, o discredito a, i prodotti di un concorrente e non deve procurare, all’autore della pubblicità, un indebito vantaggio tratto dalla notorietà del marchio del concorrente né presentare il prodotto come imitazione o contraffazione di beni protetti da un marchio altrui.


Nel caso delle tabelle di concordanza, paragonare il profumo equivalente a quello di una celebre maison nell’attività pubblicitaria del prodotto rappresenta un metodo indiretto, e neanche troppo dissimulato, per presentare il proprio prodotto come un’imitazione di quello del brand più famoso, rappresentando quindi una violazione anche delle norme sulla pubblicità comparativa.


L’articolo 2598 n.2 c.c.[3], invece, disciplina la condotta illecita della denigrazione e appropriazione di pregi. Nel caso in esame assume maggior rilievo la condotta della concorrenza sleale per appropriazione di pregi, che si verifica, appunto, quando un terzo si attribuisce i pregi, le qualità, il valore dei prodotti o dell’impresa di un concorrente in modo da diventare un motivo di preferenza del mercato rispetto ai prodotti del marchio a cui ci si paragona. Poco c’è da aggiungere a riguardo in tema di tabelle di concordanza, dove lo scopo del richiamo al marchio famoso è proprio quello di attribuirsene i pregi e le caratteristiche.


In conclusione, nel caso delle pratiche commerciali che ricorrono alle tabelle di concordanza, i giudici sono andati “oltre” nella valutazione dell’illecito: non sono più da considerarsi illeciti solo i messaggi pubblicitari che richiamano esplicitamente la riproduzione di un prodotto altrui, ma anche quei messaggi che trasmettono implicitamente tale idea, evocando il potere attrattivo del marchio rinomato sulla garanzia che il profumo equivalente ha le medesime qualità olfattive del prodotto originale.

[1] L’articolo 20.1 così recita “I diritti del titolare del marchio d'impresa registrato consistono nella facoltà di fare uso esclusivo del marchio. Il titolare ha il diritto di vietare ai terzi, salvo proprio consenso, di usare nell'attività economica: a) un segno identico al marchio per prodotti o servizi identici a quelli per cui esso è stato registrato; […] c) un segno identico o simile al marchio registrato per prodotti o servizi anche non affini, se il marchio registrato goda nello stato di rinomanza e se l'uso del segno, anche a fini diversi da quello di contraddistinguere i prodotti e servizi, senza giusto motivo consente di trarre indebitamente vantaggio dal carattere distintivo o dalla rinomanza del marchio o reca pregiudizio agli stessi [2] (Trib Torino, 15 gennaio 2015, disponibile su https://www.giurisprudenzadelleimprese.it/tabelle-di-concordanza-e-marchi-notori/#.X60VaGhKg2x). [3] L’articolo 2598 n.2) c.c. così recita “Ferme le disposizioni che concernono la tutela dei segni distintivi [2563, 2568, 2569] e dei diritti di brevetto [2584, 2592, 2593], compie atti di concorrenza sleale chiunque: […] 2) diffonde notizie e apprezzamenti sui prodotti e sull'attività di un concorrente, idonei a determinarne il discredito, o si appropria di pregi dei prodotti o dell'impresa di un concorrente. […]”




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