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Stalking e Cyberstalking

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La violenza di genere e la sua esasperazione ai tempi del Covid-19


Autore: Dott.ssa Rosaria Pardini


Con l’espressione violenza di genere si identificano tutte quelle forme di abuso esercitate su una persona per il solo fatto che la stessa appartiene ad un determinato sesso. È un concetto che si basa sulla secolare convinzione che la donna debba sottomettersi all'uomo, tradizione che ha contribuito a minare l’uguaglianza e lo sviluppo di una società democratica, in cui il genere femminile non dovrebbe più essere discriminato o subordinato a quello maschile.

Trattasi di un fenomeno dinamico, più o meno radicato a seconda del contesto storico, culturale e sociale del paese di riferimento: i ruoli e gli atteggiamenti, che nella prassi socioculturale vengono attribuiti ai due sessi, determinano la percentuale di probabilità per le donne di subire aggressioni o di essere vittime di certi reati.

La definizione più diffusa del concetto di violenza di genere risale alla Dichiarazione sull’eliminazione della violenza contro le Donne adottata dall’Assemblea generale dell’ONU nel 1993, che all'art. 1 la descrive quale “ogni atto fondato sul genere, che abbia come risultato, o che possa avere probabilmente come risultato un danno o una sofferenza fisica, sessuale o psicologica per le donne, incluse le minacce di tali atti, la coercizione o la privazione arbitraria della libertà, che avvenga nella vita pubblica o privata”.

All’interno del panorama europeo,intervento particolarmente significativo in materia è la Convenzione di Istanbul adottata dal Consiglio D’Europa l’11 maggio 2011. Tale provvedimento si pone il fondamentale obiettivo di creare un quadro normativo completo a tutela delle donne contro qualsiasi forma di violenza ed effettivamente, con essa, per la prima volta, si esplicita che la “violenza contro le donne è una violazione dei diritti umani ed una forma di discriminazione contro le donne” (art. 3).

Tra i principali piani di intervento sottolineiamo quello preventivo, in quanto la Convenzione obbliga i Paesi aderenti ad adottare misure volte a schermare ogni episodio di violenza nonché promuovere campagne di sensibilizzazione e/o nuovi programmi educativi, oltre a quello protettivo, da attuare mediante la creazione su tutto il territorio di servizi di supporto generali o speciali per le vittime di violenza, quali, a mero titolo esemplificativo case rifugio, linee telefoniche di sostegno attive notte e giorno o servizi sanitari offerti dalla pubblica amministrazione.

Per entrare in vigore, la Convenzione necessita della ratifica di almeno 10 Stati. Ad oggi , purtroppo, è stata ratificata solamente da 8 Stati e firmata da 32 Paesi, tra cui l’Italia che l’ha sottoscritta il 27 settembre 2012 e ha autorizzato la ratifica con la legge n. 77/2013. Pertanto, non risulta ancora essere pienamente vigente quando, in realtà, a parere di chi scrive, nessun Paese dovrebbe sentirsi esente dalla responsabilità di attivarsi per fronteggiare tale allarme sociale: la violenza sulle donne è un problema che interessa tutto il mondo e, come una pandemia ormai ben più radicata di quella che oggi è al centro di ogni scenario nazionale, continua a farsi strada quotidianamente. Si potrebbe, infatti, ben parlare di pandemia della violenza che, come una malattia virale, tutti dovrebbero cercare di arginare e combattere.

Rimanendo in tema pandemico, l’emergenza sanitaria da Covid-19 e quella sociale della violenza stanno, come titani, annientando tutti i Paesi e il lock-down che ci ha visto tutti protagonisti, per le donne già vittime di abusi, non è stato altro che una doppia prigione: la convivenza forzata ha fatto da amplificatore, fornendo all’uomo più occasioni per gli episodi di abusi e alla donna meno possibilità di evadere per chiedere aiuto. Infatti, durante la prima ondata pandemica, dal 9 marzo al 3 giugno 2020, sono stati 58 gli omicidi in ambito affettivo-familiare, per cui una donna ogni due giorni è stata uccisa. Alla vigilia del 25 novembre 2020, Giornata Internazionale contro la violenza di genere, i dati hanno registrato 91 donne uccise in Italia, per un totale di una ogni tre giorni.

La maggior parte di questi episodi si sono verificati in ambito familiare, dato che il lock-down ha costretto la maggior parte delle donne a rimanere richiuse tra le mura domestiche, disarmate e succubi dei loro carnefici.

Tuttavia la pandemia ha perpetrato i suoi effetti anche su altre forme di violenza che si diffondono anche fuori dal focolaio domestico.

Parliamo dello stalking, anche nella sua dimensione cyber.

Per completezza espositiva iniziamo inquadrando questa fattispecie criminosa.

Il termine stalking è inglese e deriva dal verbo “to stalk”, che significa, letteralmente, inseguire. Dal primo rapporto stilato del gruppo europeo multidisciplinare “Modena Group on Stalking”, intitolato “Proteggere le donne dal nuovo crimine di stalking”, gli Stati membri che, a partire dal 2007 iniziarono a dotarsi di un apparato normativo contro gli stalker, furono dieci: Austria, Belgio, Danimarca, Germania, Irlanda, Malta, Paesi Bassi e Regno Unito. Sul piano contenutistico, le tendenze generali sono state quelle di qualificare la condotta di stalking quale un comportamento consistente in minacce, pedinamenti diretti, intimidazioni volte ad istaurare un contatto con la vittima, la cui libertà di autodeterminazione viene sempre più compressa da episodi di persecuzione e sorveglianza frequenti ed assillanti.

Trattasi di un fenomeno di ampio raggio, che racchiude anche atteggiamenti innocui quali una telefonata, l’invio di messaggi, mazzi di fiori o scatole di cioccolatini: se questi comportamenti vengono realizzati in forma ossessiva possono sfociare in fatti violenti di vario genere e intensità che si ripercuotono sulla salute psico-fisica e sulla libertà personale del perseguitato.

A fronte dei primi interventi europei in materia, l’Italia fronteggiava i fenomeni di stalking servendosi di altre norme già presenti nel Codice penale, in particolare gli artt. 610 e 660 c.p., disciplinanti rispettivamente il reato di violenza privata e molestia e disturbo alle persone. Ben presto ci si rese conto che tali fattispecie incriminatrici non erano adatte a tutelare così complesse vicende persecutorie: attraverso la violenza privata, che punisce condotte minacciose o violente, mal si riusciva ad incriminare alcuni atteggiamenti di uno stalker, come ad esempio appostamenti o pedinamenti, mentre l’art. 610 c.p., che interessa condotte poste in luogo pubblico, aperto al pubblico o per mezzo telefonico, riusciva difficilmente ad abbracciare atteggiamenti ossessivi effettuati tramite l’utilizzo dei servizi e-mail. Pertanto, è stata introdotta, con l. n° 38 del 2009, nel novero dei reati a tutela della libertà morale della persona, una previsione specifica in tema di stalking, spingendo il nostro Paese a seguire le orme di quelli già all’avanguardia in tale ambito.

Il delitto è stato codificato all’art. 612-bis del Codice penale sotto il nome di “atti persecutori”.

La norma originaria, al comma I, prevedeva che: “salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque con condotte reiterate, minaccia o molestia taluno in modo da

  • Cagionare un perdurante o grave stato di ansia o di paura

  • Ingenerare un fondato timore per l’incolumità propria o di un prossimo congiunto o di una persona legata al medesimo da relazione affettiva

  • Costringere lo stesso ad alterare le proprie abitudini di vita

è punito con la reclusione da sei mesi a quattro anni”.

La legge n° 69 del 2019, nota come Codice Rosso, ha innalzato la pena prevedendo la reclusione da un minimo di un anno ad un massimo di sei anni e sei mesi.

Dalla definizione emerge che trattasi di un reato caratterizzato dall’abitualità, poiché per la sua integrazione è necessario il ripetersi di più condotte minacciose o moleste. Al riguardo la Sezione V della Cassazione Penale, con sentenza del 26 marzo 2010 n° 11945, ha ritenuto sufficiente ad integrare la “reiterazione” il compimento anche solo di due episodi persecutori, purché affetti da una carica offensiva incisiva a tal punto da turbare sul piano emotivo o psichico la vittima.

Il dolo richiesto è generico e consiste nella volontà di sottoporre costantemente la vittima perseguitata ad una condotta offensiva, ma gli effetti dei comportamenti sono ben descritti: solo le conseguenze anzidette, come un’alterazione delle abitudini di vita, un grave stato di ansia o la paura per la propria incolumità possono integrare il delitto di atti persecutori. Infatti, trattasi di un reato di danno, che richiede, per la punibilità dell’autore, un’effettiva lesione dei beni giuridici protetti.

Il comma II della norma in esame, introdotto in seguito alle modifiche della novella del 2009 con la legge n° 119 del 2013, prevede un aggravamento della pena qualora lo stalker sia stato un coniuge, anche separato o divorziato o una persona legata alla vittima da relazione affettiva o se il reato è stato realizzato mediante strumenti informatici o telematici. Anche il terzo comma contempla un ulteriore inasprimento della pena fino alla metà nelle ipotesi in cui il fatto è commesso a danno di un minore, una donna in gravidanza o di una persona con disabilità ai sensi dell’art. 3 della legge 1992, n° 104.

Il delitto è subordinato alla querela della persona offesa da sporgere entro sei mesi da quando è stato compiuto il fatto, e ciò nell'ottica di non obbligare la vittima ad attivare un procedimento penale se non lo desidera.

In alternativa alla querela, la legge del 2009 contempla, all’art. 8, il ricorso ad una procedura di ammonimento: il perseguitato può rivolgersi al Questore, nostra autorità di pubblica sicurezza, chiedendo un ammonimento nei confronti dello stalker. Quest’ultimo, in seguito, dovrà interrompere ogni interferenza nella vita privata della vittima molestata.

Nell’ottica di garantire maggior tutela, la novella ha anche ampliato lo spettro delle misure cautelari coercitive nei confronti degli stalker, prevedendo, prima fra tutte, il divieto ex art. 282 ter c.p.p. di avvicinamento ai luoghi frequentati abitualmente dalla persona offesa, da persone con lei conviventi o alla stessa legate da relazione affettiva. Sempre tale disposizione prosegue vietando anche la comunicazione con qualsiasi mezzo con i soggetti anzidetti.

Successivamente, il Decreto Sicurezza n° 113 del 2013 ha introdotto la misura del “braccialetto elettronico”, un doppio dispositivo GPS che consente il pronto intervento in ipotesi di trasgressione alle prescrizioni imposte da parte del molestatore. Esso viene indossato sia dalla vittima che dallo stalker e permette di segnalare alla Questura i movimenti dell’aggressore nonché geolocalizzare in tempo reale la vittima e il carnefice per intervenire in soccorso in modo tempestivo ed efficace.

Infine, non dimentichiamo la possibilità di supporto presso consultori e centri antiviolenza dislocati su tutto il territorio nazionale o tramite il telefono rosa antiviolenza e anti-stalking 1522, disponibile anche in formato app su IOS e Android, che consente alle vittime di telefonare o chattare con operatrici specializzate.

Adesso che abbiamo analizzato i tratti salienti della disciplina, non resta che approfondire le applicazioni pratiche della norma.

Il molestatore spesso cerca il confronto diretto con la persona offesa, attraverso svariate tattiche di sorveglianza e controllo, come pedinamenti o appostamenti sul luogo di lavoro o in prossimità dell’abitazione; fatti che, per il soggetto perseguitato, sono senz’altro opprimenti e pesanti. Tante volte però, sopratutto con il sempre maggiore utilizzo e sviluppo dei mezzi digitali, può iniziare o aggiungere azioni di persecuzione dietro uno schermo, servendosi di internet o altri mezzi elettronici per intimidire o molestare la vittima prescelta.

Tale fenomeno ha assunto il nome di cyberstalking (inseguire attraverso metodi informatici), incrementato dall’evoluzione digitale che ha permesso a diverse tipologie di reato già esistenti di affinarsi, evolversi, talvolta assumendo tratti ancora più subdoli.

Scopriamo insieme perché la dinamica non è da sottovalutare, soprattutto (ma non solo) in un periodo di emergenza pandemica e reclusioni forzate.

L’uso degli strumenti informatici e dei social network è l’unico modo per recuperare le possibilità di frequentazione e contatto che la pandemia ci ha tolto. Quindi, in un’era in cui i rapporti sociali sono centellinati e i motivi di incontro fortemente ridotti, gli stalker non sono per niente diminuiti ma, per la maggior parte, si sono solo nascosti dietro le barriere telematiche. Le relazioni si sono spostate nel mondo digitale, determinando un aumento dei comportamenti persecutori perpetrati attraverso la rete, a prescindere da un rapporto di conoscenza tra autore e vittima.

I media digitali, infatti, si configurano sempre più come “arma” preferita dai molestatori, i quali hanno aumentato azioni come l’istallazione di dispositivi GPS nelle auto dei propri bersagli, il tracciamento ossessivo di ogni loro attività sui social network e l’utilizzo di spyware geolocalizzanti sui telefoni, ossia software che raccolgono informazioni online di un utente senza il di lui consenso. Inoltre, il cyberstalker potrebbe arrivare a rendere insopportabili le vite delle vittime attraverso comportamenti da troll, ovvero utenti anonimi che intralciano le comunicazioni telematiche inviando messaggi minatori o provocatori on line o intercettando la casella di posta.

Come già accennato, la persecuzione virtuale può essere collegata allo stalking fisico, poiché spesso una donna vittima di cyberstalking ha, in precedenza, subito violenze fisiche, psicologiche o sessuali dalla medesima persona che può conoscere bene o essere un soggetto sconosciuto affetto da impulsi ossessivi. Viceversa, il cyberstalker può passare dalla vita virtuale a quella reale e quindi la “cybermolestia” può sfociare in un’aggressione fisica e pericolosa. Pertanto, dato che i confini tra gli atti persecutori digitali e quelli delineati dall’art. 612-bis c.p. sono tutt’altro che netti e spesso destinati ad intrecciarsi fra loro, bisogna definire anche il cyberstalking come un allarme sociale ancor prima che tecnologico.

Tuttavia, nonostante le fragili barriere tra i crimini, l’art. 612-bis c.p. non disciplina espressamente tale nuovo fenomeno allarmante, creando un vuoto legislativo che richiede un concreto intervento da parte del legislatore attraverso la formulazione di una norma penale ad hoc. Infatti, la riforma del 2009 non ha contemplato espressamente i casi in cui il soggetto agisce sotto false identità e si introduce nel sistema informatico della vittima al fine di assumerne il controllo o servirsene per intimidire o terrorizzare il proprio bersagli. Trattasi di ipotesi, peraltro, in cui il luogo di consumazione del reato non si presenta come fisico, bensì puramente virtuale. L’unico passo avanti si è avuto con L. n° 119 del 2013, che, come già espresso, ha introdotto l’aggravante della commissione del reato di atti persecutori per mezzo di strumenti informatici o telematici.

In realtà, sarebbe doveroso muoversi presto in tal senso, perché le misure di contenimento del virus non hanno fatto altro che incrementare l’ecosistema di relazioni digitali già in espansione, tanto che anche la CEDU (Corte Europea dei Diritti dell’Uomo), con una recentissima pronuncia dell’11 febbraio 2020, ha statuito che la c.d. cyberviolenza è da considerare a tutti gli effetti come violenza contro le donne e, di conseguenza, tutte le autorità nazionali non possono esentarsi dal disciplinare con misure più stringenti casi come lo stalking via web o l’utilizzo abusivo di account informatici di una donna da parte dell’ex marito o l’ex partner.

Nel silenzio della legge, la Giurisprudenza si è trovata costretta a pronunciarsi sul fenomeno, spesso riconducendolo entro lo schema dello stalking fisico. Attualmente sta inoltre cercando di colmare le lacune normative: emblematica, sul punto, è stata una recentissima sentenza della Suprema Corte, con cui ha statuito che una pubblicazione di numerosi post offensivi e denigratori sulla schermata iniziale di Facebook, homepage accessibile e visibile da tutti gli utenti del social network, non integra la condotta di atti rei persecutori di cui all’art. 612-bis c.p.: infatti la lettura dei post pubblicati è rimessa alla scelta individuale del singolo e, pertanto, non si può ritenere indirizzata direttamente alle vittime. Il Giudice di legittimità ha quindi escluso la presenza dell’invasività inevitabilmente connessa all’invio di messaggi “privati”, come quelli per mezzo di sms o whatsapp. (Cass. Pen. Sez. V, sent. 3 dicembre 2020, n° 34512).

La strada da percorrere in termini di consapevolezza, prevenzione e tutela effettiva di questi fenomeni specifici è ancora lunga.

Ad oggi, per le molestie nel c.d. cyberspazio ci si può servire della difesa legale predisposta per gli atti persecutori e sporgere denuncia contro il molestatore virtuale o chiedere il suo ammonimento all’autorità di pubblica sicurezza, ma ciò non è sufficiente.

Infatti, proprio come è stato fatto per lo stalking fisico, l’Italia dovrebbe intervenire con una riforma in grado di disciplinare ogni aspetto di tale dinamica criminosa in forte espansione, a partire dall’introduzione di una fattispecie incriminatrice ad hoc, senza lasciare che gli Ermellini continuino ad affidarsi solo all’art. 612- bis c.p.

Possiamo concludere affermando che la pandemia non è riuscita a fermare alcuna forma di violenza, neppure quelle che spesso si sviluppano fuori dalle mura domestiche. La costrizione a passare ore e ore presso la propria abitazione ha creato maggior dipendenza dai dispositivi tecnologici, tanto che, talvolta, sono riusciti a diventare perfetti complici di persecutori digitali per terrorizzare o mettere a disagio sul web vittime prescelte.

A fronte di tale allarmante scenario , il Governo Italiano si è dichiarato pronto a predisporre un nuovo piano strategico nazionale antiviolenza 2021-2024 che sia in grado di rafforzare la protezione delle donne vittime di ogni tipo di abuso nonché aumentare la sensibilizzazione per il fenomeno.

In occasione della settimana della Festa della Donna, ci auguriamo che le riforme auspicabili e i programmi in evoluzione si realizzino, al fine di celebrare in futuro questa ricorrenza con un più forte bagaglio di certezze e sicurezze a tutela dell’universo femminile, troppe volte esposto a irreparabili violenze.

 
 
 

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