Normativa, tutele e prospettive future
Autore: Dott. Andrea Mugnaini
Uno degli effetti evidenti della pandemia da Covid 19 è stato quello di aver cambiato non solo il nostro modo di vivere, ma anche quello di parlare e comunicare.
In quest’ultimo anno, vocaboli che erano presenti solo in qualche testo accademico o in sporadici articoli di giornale, sono entrati a far parte del lessico comune.
Uno degli esempi più emblematici è sicuramente lo smart working.
Ma di cosa si tratta veramente? E soprattutto in Italia è regolamentato in qualche modo?
Per rispondere alla prima domanda, dobbiamo anzitutto fare una distinzione: lo smart working (lavoro agile in italiano) è diverso dal telelavoro (o remote working). Nel primo caso si tratta infatti di un vero e proprio nuovo modo di concepire il lavoro, ponendo al centro non il tempo trascorso in azienda o in ufficio, ma la qualità dei risultati raggiunti. Il lavoratore, nello smart working, è responsabilizzato nella gestione del proprio tempo, e non verrà valutato in base a quante volte “timbra il cartellino” ma per la sua adesione agli obiettivi aziendali.
Per telelavoro, invece, si intende il semplice lavoro da casa, senza nessuna differenza in termini di ore e di autonomia.
È bene avere chiara la differenza, anche per comprendere quali sono i relativi diritti e doveri.
Si stima che nei momenti più gravi della pandemia abbiano lavorato a distanza oltre un terzo dei lavoratori dipendenti italiani (circa 6,5 milioni).
Saltano però subito all’occhio alcune differenze sostanziali.
Nel corso del 2020 quasi la totalità dei lavoratori delle grandi imprese è stata coinvolta dal lavoro agile, mentre il dato si riduce di molto via via che diminuisce la dimensione dell’impresa.
Le grandi aziende inoltre stanno sfruttando al meglio le opportunità che lo smart working offre, e l’89% di queste sta avviando una riorganizzazione integrale del lavoro e degli spazi interni. Nelle piccole imprese e nella pubblica amministrazione, nonostante i numeri siano incoraggianti (i progetti di smart working sono più che raddoppiati negli ultimi dodici mesi, specie nella PA), questo dato cresce molto più lentamente e solo l'8% del campione delle PMI dichiara di avere iniziative strutturate di riorganizzazione. Questo perché spesso i piccoli imprenditori non hanno i mezzi tecnologici per garantire il lavoro a distanza, e talvolta neppure le risorse necessarie per procurarselo.
Nel nostro Paese, la disciplina del lavoro agile è dettata dalla legge n. 81 del 22 maggio del 2017, che al fine di incentivare il suo sviluppo, stabilisce i caratteri fondamentali, dettando precisi diritti e doveri del dipendente e del datore di lavoro. In primo luogo, l’art. 19 sancisce che le modalità di smart working devono essere regolate tramite un accordo scritto tra il lavoratore e il datore di lavoro. Tale accordo stabilirà, tra le altre cose, le “forme di esercizio del potere direttivo del datore di lavoro [e gli] strumenti utilizzati dal lavoratore”, nonché “i tempi di riposo del lavoratore” e “le misure tecniche e organizzative necessarie per assicurare la disconnessione del lavoratore dalle strumentazioni tecnologiche di lavoro”. Si sottolinea inoltre che il lavoro agile è sempre volontario, e che ogni smart worker può tornare a lavorare in presenza in ogni momento, dandone semplicemente una comunicazione al datore di lavoro con trenta giorni di anticipo.
Durante l’emergenza sanitaria, per agevolare il ricorso al lavoro agile e consentire ai dipendenti di spostarsi il meno possibile, si è derogato alla stipula di questi accordi, che tuttavia torneranno a essere obbligatori a pandemia finita. Non è un caso quindi se nei primi mesi del 2021 si è assistito a un’accelerazione sul fronte di queste intese tra le grandi imprese e i sindacati.
Per quanto riguarda la retribuzione, secondo l’art. 20 “il lavoratore che svolge la prestazione in modalità di lavoro agile ha diritto ad un trattamento economico e normativo non inferiore a quello complessivamente applicato”. Ciò significa non soltanto che lo stipendio mensile deve essere lo stesso tra chi lavora regolarmente all’interno dell’azienda e chi sceglie la soluzione del lavoro agile, ma anche che lo smart worker ha diritto alle medesime condizioni del lavoratore ‘semplice’ per quanto riguarda scatti di anzianità, lavoro supplementare e straordinario, o altre tipologie di benefit, come i buoni pasto o l’auto aziendale.
Proprio quest’ultimo punto rappresenta una grossa mancanza del sistema italiano.
La giurisprudenza della Cassazione, attraverso numerose sentenze, ha stabilito infatti, proprio in riferimento ai buoni pasto, che i vari benefit non rientrano nel trattamento retributivo in senso stretto e non devono essere automaticamente riconosciuti al lavoratore agile. La disciplina di questi benefici è quindi demandata agli accordi interni tra lavoratore (o i sindacati) e il datore di lavoro.
Passando poi all’orario di lavoro, si stima che meno del 50% delle imprese, che utilizzano con regolarità le modalità di lavoro agil,e riconoscono ai propri dipendenti gli straordinari. Secondo la legge n. 81 del 2017, allo smart worker dovrebbe essere garantito lo stesso numero di ore lavorative definite dalla legge o dai contratti collettivi nazionali, ma sono pochissime le aziende che monitorano i tempi di lavoro a distanza, e questo comporta grandi difficoltà nel calcolo degli straordinari. Molto rare sono poi le imprese che riconoscono l’aumento dello stipendio per le ore aggiuntive “sulla fiducia”. Tutto ciò comporta uno svantaggio non di poco conto per chi sceglie il lavoro a distanza. La speranza è che gli accordi che stanno nascendo in questi mesi servano a ridurre questo contrasto.
In termini di sicurezza sul lavoro, invece, l’art. 22 della legge del 2017 stabilisce che è compito del datore di lavoro garantire la salute e la sicurezza dello smart worker e a tal fine egli è obbligato a consegnare “al lavoratore e al rappresentante dei lavoratori per la sicurezza, con cadenza almeno annuale, un'informativa scritta nella quale sono individuati i rischi generali e i rischi specifici connessi alla particolare modalità di esecuzione del rapporto di lavoro”. A differenza del lavoro in presenza, nel quale il datore di lavoro è direttamente responsabile della regolarità e adeguatezza della postazione lavorativa,nel lavoro agile il suo obbligo si riduce a un’informativa generale, e sarà poi compito del lavoratore adeguarsi a questa per ridurre tutti i rischi connessi alla sua prestazione.
Anche questa norma è stata molto disattesa nel corso della pandemia: se è vero che la maggioranza delle grandi imprese ha inviato a i propri dipendenti quest’informativa, spesso i lavoratori non vi hanno prestato la giusta attenzione, sia per motivi di scarso interesse, sia talvolta per le oggettive difficoltà nell’adeguare la propria casa agli standard necessari.
Volendo trarre qualche considerazione finale, si può dire che la strada per garantire condizioni di uguaglianza tra i lavoratori in presenza e gli smart worker sia ancora molto lunga, sebbene l’epidemia abbia contribuito molto ad accelerare questo processo. Non è quindi possibile stabilire con certezza se i vantaggi di una simile scelta siano maggiori rispetto agli svantaggi.
Un dato che colpisce è che i più interessati allo smart working sono i lavoratori compresi nella fascia di età tra 35 e 50 anni, mentre i giovani e gli ultracinquantenni preferiscono non rinunciare all’ufficio. Se per i lavoratori più anziani il dato può essere certamente influenzato dall’abitudine di lunga data e dalla difficoltà a utilizzare gli strumenti tecnologici, per quanta riguarda i giovani ciò si spiega con una loro maggiore socialità e con il bisogno d’imparare, e questo è molto più difficile lavorando a distanza.
In secondo luogo, un’altra differenza si nota tra chi risiede nelle grandi aree metropolitane, dove quasi ovunque è assicurata un’ottima connessione internet (oltre a moltissimi altri tipi di confort), e chi invece abita nei piccoli centri, dove spesso non prende neppure il televisore digitale, figurarsi la linea Wi-fi (si pensi alle frazioni di montagna). Eppure, proprio queste piccole realtà potrebbero usufruire al meglio dei benefici che porta lo smart working, attraendo lavoratori disposti a lavorare a distanza spostandosi dalla città, contribuendo allo sviluppo di questi territori.
Resta quindi compito del legislatore fare in modo che lo smart working diventi sempre più un’opportunità, ponendo mano a quelle criticità che si sono riscontrate, per non ripetere quell’esperienza fallimentare del telelavoro. Tale obiettivo, si auspica, sarà sicuramente di più facile realizzazione con interventi mirati, grazie anche ai finanziamenti già previsti a livello europeo, quale il Fondo sociale europeo, e finanziamenti che arriveranno nei prossimi mesi dai fondi europei, quale il Recovery Plan che prevede apposite misure finalizzate all'implementazione dello smart working nella pubblica amministrazione
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