La distinzione tra esercizio arbitrario delle proprie ragioni ed estorsione
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La distinzione tra esercizio arbitrario delle proprie ragioni ed estorsione

La soluzione delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione



Autore: Dott.ssa Federica Helferich



1. Inquadramento della sentenza n. 29541/2020

Con la sentenza n. 29541/2020, le Sezioni Unite della Corte di cassazione si confrontano con il reato di “Esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza o minaccia alle persone”, di cui all’articolo 393 del nostro Codice penale (c.p.), anche noto come delitto di ‘ragion fattasi’. Tra le varie questioni che questa sentenza affronta, quella più importante riguarda l’individuazione del criterio differenziale tra questo reato e quello di estorsione (art. 629 c.p.).

L’intervento chiarificatore delle Sezioni Unite era stato invocato nel 2019 dalla Sezione II della medesima Corte, perché la distinzione tra il reato di cui all’art. 393 c.p. e quello di cui all’art. 629 c.p. veniva risolta diversamente dalle diverse Sezioni della Corte di cassazione. Quando sussistono simili divergenze interpretative si parla, tecnicamente, di “contrasto giurisprudenziale”; si tratta di una situazione che può essere fonte di grande incertezza giuridica e che la Suprema Corte è chiamata a risolvere, pronunciandosi a Sezioni Unite (spesso indicate come Sez. Un. o SS.UU.).

Nel nostro caso, è importante sottolineare fin d'ora che la qualificazione di un comportamento concreto in termini di esercizio arbitrario delle proprie ragioni oppure di estorsione ha una fondamentale importanza pratica, perché tra i due reati vi sono profonde differenze rispetto al trattamento sanzionatorio: il delitto di cui all’art. 393 c.p. è punito con la pena della reclusione fino a un anno; per l’estorsione, invece, è prevista la pena della reclusione da cinque a dieci anni e la multa da 1.000 a 4.000 Euro.

È altresì importante sottolineare che le difficoltà nel distinguere tra il reato di cui all’art. 393 c.p. e quello di cui all’art. 629 c.p. sono dovute al fatto che il comportamento fattuale che entrambi i reati puniscono è il medesimo: ossia, la violenza e la minaccia, senza ulteriori elementi distintivi[1]. Ecco perché la sentenza delle Sezioni Unite è particolarmente importante.



2. La vicenda in fatto e in diritto

Nell’aprile del 2013, tre persone – i ricorrenti per cassazione – si presentano inaspettatamente sul cantiere gestito dalle due persone offese, e le sollecitano a saldare il debito contratto con uno di loro. In particolare, due dei ricorrenti si presentano come “i calabresi di Rosarno”; un altro asserisce che, se le persone offese non avessero onorato il loro debito, “qualcuno si sarebbe fatto male”, e lascia intendere la propria contiguità con ambienti malavitosi di tipo mafioso. Infine, un altro ancora prende a braccetto una delle persone offese e, constatato come stessero costruendo delle “belle villette”, la invitava a chiudere la faccenda con solerzia.

Questa condotta minatoria era stata valutata dai giudici di primo e secondo grado come concorso in tentata estorsione aggravata; i ricorrenti, invece, ritenevano che il comportamento da loro posto in essere dovesse essere qualificato come concorso in esercizio arbitrario delle proprie ragioni ai sensi dell’art. 393 c.p., sottolineando come uno di loro fosse, effettivamente, titolare di un credito nei confronti delle persone offese (in virtù di un contratto di permuta precedentemente stipulato e poi non adempiuto), ciò che rendeva la sua richiesta non estorsiva bensì giuridicamente fondata.



3. La soluzione delle Sezioni Unite: la differenza sta nell’intenzione del soggetto agente

Prima di giungere alla propria conclusione, le Sezioni Unite passano in rassegna le molteplici sentenze della giurisprudenza di legittimità (cioè della giurisprudenza della Corte di cassazione stessa) che si erano confrontate con il tema della distinzione tra esercizio arbitrario delle proprie ragioni ed estorsione.

Una prima opzione interpretativa si basa su un criterio materiale, ossia ritiene determinante, al fine di qualificare come estorsiva una condotta violenta o minacciosa, l’intensità della condotta stessa. In particolare si valorizza, alternativamente:

· la quantità di violenza o minaccia utilizzata (= intensità, gratuità e sproporzionalità della violenza o minaccia rispetto al credito da esigere: a partire da Cass. pen., Sez. I, n. 10336 del 2 dicembre 2003 – 4 marzo 2004, Preziosi; più di recente, Cass. pen., Sez. II, n. 26608 del 29 maggio – 17 giugno 2019; Cass. pen., Sez. II, n. 1921 del 18 dicembre 2015 – 19 gennaio 2016, Li);

· l’esito della condotta minacciosa o violenta (= effetto costrittivo, piuttosto che persuasivo, sulla volontà del destinatario della violenza o minaccia: Cass. pen., Sez. II, n. 23759 del 2 luglio – 11 agosto 2020; Cass. pen., Sez. II, n. 39138 del 10 settembre 2019; in precedenza, Cass. pen., Sez. II, n. 55137 del 3 luglio 2018, Arcifa e Cass. pen., Sez. II, n. 36928 del 4 luglio 2018, Maspero);

· il metodo violento o minaccioso utilizzato (Cass. pen., Sez. V, n. 35563 del 15 luglio 2019, Russo.; Cass. pen., Sez. II, n. 28539 del 14 aprile 2010, Coppola; Cass. pen., Sez. II, n. 41365 del 28 ottobre 2010 – 23 novembre 2010, Straface);

· la fondatezza o meno della pretesa che la violenza o la minaccia volevano soddisfare (Cass. pen., Sez. II, n. 16030 del 12 febbraio 2020; Cass. pen., Sez. II, 23 settembre 2003, E. K; Cass. pen., Sez. II, n. 26235 del 25 maggio 2017, Nicosia).


Una seconda opzione interpretativa, invece, si fonda su un criterio psicologico, cioè ritiene che il discrimine tra i due reati risieda nell’intenzione perseguita da colui che esercita la violenza o la minaccia. Secondo questa tesi, mentre l’estorsore è mosso dall’intenzione di procurarsi un ingiusto profitto con altrui danno, nella consapevolezza che quanto preteso non gli è giuridicamente dovuto, colui che (seppur arbitrariamente) agisce a tutela delle proprie ragioni altro non vuole se non “farsi giustizia”, poiché sa che “l’oggetto della pretesa gli compete giuridicamente” (per tutti, Cass. pen., Sez. II, n. 46288 del 3 novembre – 28 giugno 2016, Musa).

Le Sezioni Unite della Corte di cassazione, dal canto loro, aderiscono a quest’ultima interpretazione “soggettivistica”: è il fine perseguito dal soggetto agente che svolge il ruolo di criterio distintivo tra il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni e quello di estorsione. Affermano, così, il seguente principio di diritto (par. 14 della sentenza):

“Il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza o minaccia alle persone e quello di estorsione si differenziano tra loro in relazione all’elemento psicologico, da accertarsi secondo le ordinarie regole probatorie”.



4. ….Ma anche le modalità della condotta hanno una loro importanza

Nonostante la proclamata adesione al criterio soggettivo dell’intenzione dell’agente, la sentenza n. 29541/2020 continua ad attribuire un certo rilievo, ai fini della qualificazione di un determinato comportamento come estorsione oppure come esercizio arbitrario delle proprie ragioni, al criterio della intensità della violenza o della minaccia realizzate.

Secondo la sentenza 2951/2020, infatti, “alla speciale veemenza del comportamento violento o minaccioso potrà […] riconoscersi valenza di elemento sintomatico del dolo di estorsione” (par. 11.1.1. della sentenza). Ciò significa che la finalità concretamente perseguita dal reo può desumersi anche dalle modalità con cui la realizza: se le modalità sono particolarmente violente o minacciose, ecco che il fine perseguito potrà essere quello di procurarsi un ingiusto profitto (estorsione), piuttosto che quello di “farsi giustizia” (esercizio arbitrario delle proprie ragioni).

Tuttavia, questo non è un automatismo. Le Sezioni Unite, infatti, affermano anche che l’utilizzo del c.d. metodo mafioso (art. 416-bis.1 c.p.), di per sé ovviamente molto grave, può, e non deve, essere compatibile con il reato di ‘ragion fattasi’: nel caso concreto, cioè, sussiste cioè “la possibilità di valorizzare l’impiego del c.d. ‘metodo mafioso’, unitamente ad altri elementi, quale elemento sintomatico del dolo di estorsione” (par. 11.1.1.).

Inoltre, un altro elemento fattuale che viene in gioco, e che secondo le Sezioni Unite deve essere accertato ancora prima di quello dell’intenzione dell’agente, è l’elemento della tutelabilità del diritto che il soggetto pretende di far valere con violenza o minaccia: nella sentenza, infatti, si legge che “decisivo rilievo [ha]l’esistenza o meno di una pretesa in astratto ragionevolmente suscettibile di essere giudizialmente tutelata” (par. 10.5.3.). In altri termini, se da una verifica preliminare emerge che il diritto che il soggetto intende (auto)tutelare con violenza o minaccia non è in alcun modo azionabile ricorrendo alle ordinarie vie giurisdizionali, la condotta violenta o minacciosa non può che rappresentare un’estorsione, quale che sia l’elemento psicologico del soggetto agente.



5. Conclusioni

Vediamo dunque che la sentenza n. 29541/2020 cerca di trovare un compromesso tra la tesi che si fonda sul criterio materiale (intensità della violenza o minaccia) e la tesi basata sul criterio psicologico (finalità voluta dal soggetto). Da un lato, infatti, afferma che il criterio decisivo per distinguere tra i due reati è quello del fine soggettivamente perseguito; dall’altro, alla luce della difficoltà di provare un elemento soggettivo, non esclude che la finalità soggettiva sia desunta dalle modalità della condotta, pur rigettando ogni deduzione automatica in tal senso.


[1] Articolo 393, comma 1, c.p.: “Chiunque, al fine [di esercitare un preteso diritto], e potendo ricorrere al giudice, si fa ragione da sé medesimo usando violenza o minaccia alle persone, è punito, a querela dell’offeso, con la reclusione fino a un anno”. Art. 629, comma 1, c.p.: “Chiunque, mediante violenza o minaccia, costringendo taluno a fare o a omettere qualche cosa, procura a sé o a ad altri un ingiusto profitto con altrui danno, è punito con la reclusione da cinque a dieci anni e con la multa da Euro 1.000 e 4.000”. L’estorsione è procedibile d’ufficio.



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