Il ritardo della pubblica amministrazione: il confine tra indennizzo e risarcimento del danno
Autore: Avv. Giulio Saffioti
Il procedimento amministrativo, oggi regolato dalla legge 241 del 1991, è l’insieme delle regole che l’amministrazione deve osservare per l’adozione del provvedimento finale.
Tra le tante innovazioni apportante dalla legge richiamata, la quale ha letteralmente rivoluzionato il rapporto tra amministrazione e privato cittadino, va certamente menzionata la fissazione di determinati termini di durata del procedimento, la cui disciplina è rimessa all’art. 2.
In altre parole l’amministrazione non è libera di determinare arbitrariamente il termine entro cui concludere il procedimento iniziato d’ufficio o su istanza di parte, essendo soggetta ai limiti temporali sanciti proprio dall’art. 2 poc’anzi citato.
Il termine è variabile e dipende dalla complessità dei singoli procedimenti (in linea generale la norma stabilisce un termine di 90 giorni che può comunque essere prorogato in presenza di determinate circostanze).
Quindi l’amministrazione pubblica, entro i termini stabiliti, deve dare una risposta al cittadino che è lì in attesa del provvedimento.
Cosa succede allora se questa attesa rimane vana e l’ente non adotta l’atto?
Ci sono conseguenze per il modo agire dell’amministrazione, anzi per il fatto che la stessa non ha agito?
Ovviamente si.
Se infatti l’ente pubblico rimane inerte, oltre alla attivazione dei poteri sostitutivi nei confronti del soggetto chiamato a ad adottare il provvedimento, il privato può ottenere il risarcimento del danno ingiusto cagionato in conseguenza dell’inosservanza dolosa o colposa del termine di conclusione del procedimento (art. 2 bis l. 241/1990).
In realtà vi sarebbe anche la possibilità di ottenere un indennizzo da mero ritardo dell’amministrazione, cioè per il solo fatto che il provvedimento sia intervenuto oltre i termini.
L’indennizzo sarebbe ovviamente molto più facile da conseguire, atteso che esso opera automaticamente, dovendo solo essere provato il fatto del ritardo, mentre la prova del risarcimento è per sua natura più complessa (bisogna provare il danno, l’elemento psicologico del dolo o della colpa e il nesso di causalità).
Il condizionale è d’obbligo perché la giurisprudenza, in contrasto con la dottrina maggioritaria, ha sempre negato cittadinanza al risarcimento del danno da mero ritardo (che consiste nella prova, come detto, del solo ritardo e nient’altro), ciò in quanto l’art. 2bis, comma 1bis, pur prevedendo il diritto all’indennizzo da mero ritardo, stabilisce che tale indennizzo deve essere determinato alle condizioni e secondo le modalità stabilite dalla legge o sulla base della legge, da un regolamento governativo.
Questo regolamento, come spesso accade nel nostro paese, non è stato adottato, ed è per tale ragione che i giudici sono restii a ritenere che sussista anche un indennizzo da mero ritardo.
In alcune pronunce giurisprudenziali (Cons. di Stato, n. 2638 del 22 maggio 2014; TAR Campania, n. 1226 del 23 febbraio 2015) viene tracciata, espressamente, la differenza tra risarcimento ed indennizzo, segno che, in attesa del legislatore, sembra quasi che si apra una piccola breccia nella giurisprudenza anche per il riconoscimento dell’indennizzo da ritardo.
Ad ogni modo, indennizzo o meno, se a causa del mancato rispetto dei termini procedimentali, il privato ha subito un danno e questo danno è comprovabile, allora egli avrà diritto ad ottenere il risarcimento da parte dell’amministrazione, anche nell’ipotesi in cui comunque il provvedimento venga emanato oltre tempo massimo.
Pertanto oggi appare piuttosto utopico parlare di indennizzo da mero ritardo dell’amministrazione che conseguirebbe alla semplice “prova” del fatto del ritardo dell’azione amministrativa (nonostante i circoscritti orientamenti giurisprudenziali).
Molto più corretto ed attuale parlare invece di risarcimento del danno da ritardo, il quale si può ottenere solo nell’ipotesi in cui sussistano i presupposti previsti dalla legge e specificati anche dal TAR Lazio nella recente sentenza del 13 gennaio 2020, n. 280.
Il risarcimento è, ovviamente ben diverso dall’indennizzo, tanto sotto il profilo dei presupposti legittimanti la sussistenza, quanto sulla base dell’onere probatorio richiesto al soggetto leso.
Difatti, il risarcimento del danno da ritardo, relativo ad un interesse legittimo pretensivo (chiedo qualcosa all’amministrazione ed ho interesse a che la stessa mi risponda entro un dato termine), non può essere avulso da una valutazione concernente la spettanza del bene della vita e deve, quindi, essere subordinato, tra l’altro, oltre che all’accertamento dell’ineludibile elemento soggettivo (dolo o colpa nello specifico) e del nesso di causalità, anche alla dimostrazione della spettanza del bene sostanziale della vita, collegato ad un tale interesse.
Questo perchè, la legge n. 241 del 1990, non ha elevato a bene della vita suscettibile di autonoma protezione, mediante la tutela risarcitoria, l’interesse procedimentale al rispetto dei termini dell’azione amministrativa se tale interesse non è collegato alla verifica e sussistenza dell’interesse sostanziale cui il procedimento stesso è finalizzato.
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