Il dogma del cognome paterno
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Il dogma del cognome paterno

Verso il tramonto di una sua automatica acquisizione?

L'evoluzione giurisprudenziale.


Autore: Dott.ssa Rosaria Pardini


Il cognome, insieme al prenome, costituisce uno degli elementi essenziali dell’identità personale di un individuo all’interno del contesto in cui vive e denota l’appartenenza di un soggetto ad una determinata famiglia.


Ai sensi dell'art. 6 del nostro Codice civile, tali segni identificativi vengono tutelati sotto forma di “diritto al nome”.

Il diritto al nome è una prerogativa irrinunciabile di ogni persona fin dalla nascita e non passibile di cambiamenti, aggiunte o rettifiche se non nei casi e modi tassativamente indicati dalla legge.

All’interno del nostro Paese è radicato, per antica consuetudine, il criterio dell’automatica attribuzione ai figli del cognome del padre anziché quello della madre, nell’ottica di conferire un formale riconoscimento alla paternità, visto che la maternità, a causa del parto e della gravidanza, risulta essere certa.

Trattasi di un retaggio superstite della tramontata potestà maritale, istituto di tradizione romanistica, fondato sulla supremazia del padre all’interno del nucleo familiare.

Il criterioin questione interessa sia i figli nati da coppia coniugata che quelli nati fuori dal matrimonio.


Segnatamente, con riferimento alla prole nata in costanza di matrimonio, l’art. 231 c.c. prevede una presunzione di paternità del figlio in capo al marito della madre. Quest’ultimo risulta quindi il presunto padre del figlio concepito o nato durante un’unione matrimoniale e il cognome del neonato sarà, in forza della secolare consuetudine ancora vigente, quello del marito della partoriente.

Per i figli nati fuori dal matrimonio invece, l’art. 262 c.c. stabilisce che questi debbano assumere il cognome del genitore che per primo esegue il riconoscimento ovvero una dichiarazione da rendere innanzi all’Ufficiale di Stato Civile o alla competente Autorità Giudiziaria, con atto pubblico dinanzi ad un notaio o tramitetestamento, e ciò al fine di poter essere riconosciuto quale padre o madre di un individuo. Se tale procedimento viene effettuato contemporaneamente da entrambi i genitori, la disposizione impone che il figlio debba assumere il cognome del padre.


L’ automatica acquisizione del cognome paterno è già stata al centro di numerosi dibattiti giurisprudenziali. Le criticità derivano dal suo essere anacronistica rispetto all’attuale contesto sociale in cui la donna non vive più in condizioni di inferiorità rispetto all’uomo oltre a risultare incoerente rispetto ad alcuni dettami di rango costituzionale, primo fra tutti l’art. 2 che tutela il diritto all’identità personale, da intendersi come diritto del singolo a vedersi riconosciuti i segni di identificazione di entrambi i rami genitoriali.

Assumono altresì rilievo in questa sede gli artt. 3 e 29, che disciplinano rispettivamente il principio di uguaglianza e la pari dignità tra genitori nei rapporti con i figli, principi che mal si allineano con un criterio preferenziale verso il solo cognome del padre.


In tal senso anche la Corte Costituzionale ha preso atto dell’immutato quadro normativo in materia e già con una sentenza del 2006 aveva definito l’attribuzione del cognome paterno un “retaggio di una concezione patriarcale della famiglia, non più coerente con i valore dell’ordinamento e il principio di uguaglianza tra uomo e donna” (sent. 6 febbraio 2006, n°61). Tale pronuncia che ha segnato l’inizio di un orientamento della Consulta totalmente opposto al precedente, poiché la stessa, nel 1988, e quindi diciotto anni prima, aveva escluso l’incostituzionalità delle disposizioni inerenti al cognome paterno sulla base della diversa tutela del diritto all’identità personale da attuare non attraverso un’autonoma scelta del cognome, bensì per mezzo del cognome che meglio tutela l’interesse alla conservazione dell’unità familiare. Tale è sempre stato, data l’antica concezione patriarcale della famiglia, quello del padre. (ordinanza n° 586 del 1988)


L’occasione per il Legislatore di introdurre una modifica in materia si è aperta nel 2012-2013 con la riforma sulla filiazione. Purtroppo, con la novella, non solo l’obiettivo è in parte andato perso, ma sono aumentate le criticità. Infatti, il D. Lgs n° 154/2013 ha eliminato la disparità tra i figli legittimi, ossia quelli nati da coppia coniugata e quelli naturali cioè nati fuori dal matrimonio, introducendo all’art. 315 c.c. il nuovo principio di status unico di figlio, che è tale e gode delle medesime prerogative al di là del nucleo da cui deriva. Tuttavia, tale nuovo concetto appare irrimediabilmente stridente con la differenziazione ancora vigente del regime di attribuzione del cognome per i figli nati fuori e all’interno di un’unione matrimoniale.

Ciò nonostante, con tale riforma qualche passo in avanti è stato comunque compiuto, soprattutto con la modifica dell’art. 262, co. 3 c.c., il quale oggi nel nostro ordinamento consente di anteporre il cognome della madre a quello del padre oppure sostituire o aggiungere a quest’ultimo quello materno. Inoltre, è possibile per il figlio, sempre alla stregua del medesimo comma, conservare il cognome attribuitogli alla nascita qualora quest’ultimo “sia divenuto segno autonomo della sua identità personale”, aggiungendolo, anteponendolo o sostituendolo al cognome del genitore che per primo lo ha riconosciuto o al cognome dei genitori in ipotesi di riconoscimento da parte di entrambi.

L’inesistenza all’interno del nostro ordinamento di una espressa deroga all’esclusività del cognome paterno ha sollecitato, altresì, l’intervento della CEDU (Corte Europea Dei Diritti dell’Uomo), che, con sentenza del 7 gennaio 2014 emessa nel procedimento “Cusan e Fazzo vs Italia”, ha condannato il nostro Paese sul punto, affermando che l’impossibilità di attribuire, all’atto di nascita, il cognome della madre anziché quello del padre costituisce una violazione degli artt. 7 e 14 della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo, che prevedono rispettivamente il rispetto della vita privata e familiare e il divieto di discriminazione.


Prendendo le mosse da tale sanzione, la Consulta è tornata nel 2016 sulla partita dell’attribuzione del cognome materno, stabilendo l’illegittimità costituzionale della normativa vigente, segnatamente dell’art. 262, co. I c.c., nella parte in cui non consente ai coniugi di comune accordo di trasmettere ai propri figli anche il cognome della madre. In caso di mancata esplicitazione o diversa indicazione, il neonato avrà solo ed unicamente il cognome paterno (Corte costituzionale, 8 novembre 2016, n° 286).

Dopo la pronuncia del 2016, che costituisce di fatto una delle pietre miliari del percorso improntato all’uguaglianza di genere, con una recentissima sentenza, la Consulta è intervenuta di nuovo sul tema in tempi recentissimi ed in particolare con l’ordinanza n° 18 dell’11 febbraio 2021. Quest’ultima pronuncia trae origine dall’intervento richiesto alla Corte costituzionale dal Tribunale di Bolzano, il quale era stato chiamato a decidere nel merito in ordine ad un ricorso presentato dal Pubblico Ministero al fine di ottenere la rettificazione dell’atto di nascita di una bambina a cui i genitori, non coniugati, avevano concordemente deciso di attribuire esclusivamente il cognome materno, confermando tale volontà anche dinanzi all’Autorità Giudiziaria medesima. La Consulta, con tale pronuncia, ritenendo la questione anzidetta strettamente connessa al principio dell’automatica attribuzione del cognome paterno, ha dichiarato incostituzionale l’art. 262, co. I c.c. laddove non consente di attribuire al figlio, all’atto di nascita, esclusivamente il cognome della madre.


Tale approdo segnerà il tramonto dell’esclusività del cognome paterno? A parere di chi scrive, pur essendo stata riaffermata la necessità di ristabilire concretamente il principio della parità dei genitori, la Corte costituzionale ha meramente preso coscienza che, stante l’assenza di una riforma legislativa organica della materia, è ancora vivo il dogma dell’attribuzione del cognome paterno, destinato ad operare in via generale in mancanza di espresso accordo dei genitori. Ne consegue che, qualora l’accordo comune circa l’attribuzione esclusiva del cognome della madre manchi o non sia stato legittimamente espresso, viene riconfermata l’automatica prevalenza del cognome paterno. In tali casi l’interessato, qualora in un momento successivo voglia mutare per motivi personali il proprio cognome, può procedere, in forza del già richiamato art. 6 del Codice civile, ad una sua modifica per mezzo di specifica istanza al Prefetto della Provincia del luogo di residenza del richiedente o di quello nella cui circoscrizione si trova l’ufficio di Stato Civile depositario dell’atto di nascita dello stesso.

Nonostante la tradizione secolare del patronimico si stia lentamente scardinando, non è stato ancora eliminato ogni automatismo. Per fronteggiare le criticità ancora esistenti, si potrebbe seguire le orme di alcuni Paesi europei a noi vicini, i cui impianti legislativi prevedono soluzioni non discriminatorie. Esempi in tal senso possiamo ritrovarli nel sistema spagnolo, in cui al minore è attribuito il doppio cognome e la legislazione francese che in ipotesi di riconoscimento eseguito dai genitori nello stesso momento prevede che il figlio assuma il cognome di entrambi e, nel 2003, ha acconsentito l’uso indistintamente del cognome sia paterno che materno all’atto di nascita.


Al di là della centralità che il cognome ha rivestito e riveste nei rapporti interpersonali, dalla culla alla vecchiaia, dalla scuola al mondo del lavoro, ciò che uno Stato di diritto deve comunque garantire e proteggere è l’individuo in quanto tale e quindi la sua facoltà di riconoscersi liberamente in quel cognome, paterno o materno che sia, senza che sia la giurisprudenza a doversi interrogare in tal senso. Del resto, come con la massima naturalezza, per usanza e consuetudine, in questi giorni si è celebrata la giornata dedicata al papà e i primi di maggio si festeggia quella dedicata alla mamma, la stessa uguaglianza dovrebbe regnare a livello più alto, proprio nelle scelte del Legislatore.

Riproduzione riservata.

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